L’ acquedotto dell’Abatemarco e l’arte di cronicizzare il morbo


Di Francesco Capalbo

Se c’è una cosa in cui i politici calabresi eccellono, questa ha un nome: arte di cronicizzare il morbo.

Come i potentati farmaceutici tendono a rendere croniche le malattie, non avendo simpatia per le cure definitive, così i politici calabresi si rivelano pieni di talento nello spalmare pomate non risolutive e nell’incollare cerotti  sulle ferite di cui sono affetti i nostri territori.

Se i primi lo fanno per convenienza economica (vendono pillole e unguenti, invece di un unico farmaco) i secondi agiscono per calcolo elettorale.  

La vicenda dell’acquedotto dell’Abatemarco ne è un esempio. I soloni che governano la Calabria pensano che rifarlo integralmente non produca consenso, ritardarne la morte invece sì. Il motivo è presto detto. C’è tutta una economia che si avvantaggia di ciò che è cronico e fatiscente: le ditte intervengono per somma urgenza; l’abitante sperimenta il prodigarsi del politico locale, non percependo in alcun caso quanto esso sia furbo, interessato e non risolutivo.

Alcuni economisti affermano che con i soldi spesi per tamponare i buchi che periodicamente oltraggiano l’acquedotto che rifornisce Cosenza, si sarebbe potuto costruire un efficiente serpentone idrico lungo quanto tutto l’equatore. L’intervento risolutivo non è mai stato preso in considerazione.

Non avrebbe contribuito infatti alla riproduzione di un ceto politico che, con il suo modo di porre rimedio agli accidenti della nostra terra, ne sta decretando la irreversibile decadenza.


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