La fiera del Pettoruto, il sindaco di Arianta e il calascione






La fiera del Pettoruto è antica. Certamente era presente in età feudale. Ce lo rivelano fonti ben accreditate. Nel 1857 l’arciprete Domenico Cerbelli scriverà nella sua una sua importante monografia: “Nel territorio ariantese celebrasi la fiera del Pettoruto. In tempo dei principi feudatari il sindaco di questo comune, accompagnato dalla squadriglia e da altri impiegati comunali ogni anno si portava nel Piano della fiera ad inalberare la regia bandiera, invigilava su i pesi e le misure”. Non ci disorienti la parola “ariantese”. All’epoca, il territorio sul quale si concentravano avventori provenienti da ogni parte della Calabria Citra ed Ultra, apparteneva al confinante comune di Mottafollone, conosciuto nell’antichità con il nome di Arianta. La bandiera che veniva esposta sul luogo preposto agli scambi commerciali era quella dei re di Napoli. Il complesso sistema di pesi e di misure sui quali i sindaci dell’epoca vigilavano con perizia e scrupolo erano complessi e portavano nomi strani: cantaro, rotolo, libbra, oncia, trappeso, caraffa, stajo, quarto e misurella. Nello stesso testo don Domenico Cerbelli ci tramanda anche l’informazione che il Piano della fiera era chiamato Santa Maria delle Piane e che ogni lunedì di Pasqua, fino al 1806, in questa località “un piccolo mercato celebravasi”.La fiera del Pettoruto, dall’ epoca feudale e per molto tempo ancora, fu solcata da nugoli di greggi. Attraeva soggetti dediti al commercio degli animali: allevatori di suini, di cavalli, di asini, dì mucche, di capre e di pecore. Decurie di energici mandriani governavano gli spostamenti degli animali fin dalle lontane terre del materano e del potentino. Con essi, giungevano a San Sosti persone dalle impercepibili identità: accattoni e strimpellatori, giocatori d’azzardo e girovaghi, zingari e mendicanti.   Alcuni erano animati da buoni propositi, altri da progetti disdicevoli. Santi e diavoli si mescolavano negli stessi spazi.Nel 1924 arrivò ad esempio in fiera, sotto mentite spoglie, Domenico Groppo, fachiro e mendicante, in seguito soprannominato il mostro di Ferrandina perchè autore di 41 omicidi. Quale fosse stato il movente della sua inopportuna visita lo rivelò, due anni dopo, un articolo del Corriere della Sera datato 1 ottobre 1926: “Un altro delitto il mostro consumò a breve distanza di tempo a San Sosti, dove aveva conosciuto un certo Bloise, con il quale aveva stabilito di tentare qualche buon colpo. I due aggredirono un commerciante di bestiame, reduce dalla fiera e lo spogliarono di 14 mila lire. Fatto il colpo, il bandito ebbe a pentirsi di aver diviso con il complice il bottino e prese la decisione di sopprimerlo. Infatti invitatolo a cena, l’ubriacò e con un nodoso randello gli fracassò il cranio: poi nascose il cadavere in una macchia e si allontanò tranquillo”. Facevano da contrappeso alle frequentazioni criminali quelle dei sognatori. Nel 1893 la fiera del Pettoruto venne scrutata con occhi vigili da un trentenne grassottello e di strane idee. Era il genero di Oreste Coppola, farmacista del luogo. Di nome faceva Giovanni de Giacomo. Nativo di Cetraro, il giovane insegnava nelle scuole elementari di San Sosti ed aveva una grande passione per la nascente etnologia. Tra le baracche della fiera non cercava merci. I suoi desideri erano immateriali. Conoscitore come pochi delle opere di William Shakespeare, ogni volta che ne leggeva i drammi volgeva il pensiero ad alcune storielle calabresi nelle quali sentiva l’eco dello spasimo atroce dello sventurato re inglese. Con l’avanzare delle sue letture si era convinto sempre di più che la grande creazione letteraria avesse origine da tracce indelebili che gli scrittori raccoglievano frequentando i luoghi in cui si concentravano le vite degli umili. A San Sosti rinvenne i “germi d vita”, che secondo lui ispirarono Shakespeare, nella composizione del celeberrimo Re Lear. Fu instradato nella scoperta dal suono del calascione, un antico strumento a tre corde e dalla voce roca di un cieco accattone che invitava i presenti ad avvicinarsi per ascoltare “d’ ‘u re Turchinu ‘a storiella”:

 “Avanzi, avanzi! Sone ‘u calasciuni:

cca’ ci truovi taralli e cafè:

cantu di l’armi tutti li canzuni:

cca’ c’è lucanna di conti e di re!

 I versi, in tutto cinquantadue, recitati con enfasi dal mendicante, furono scrupolosamente annotati e poi pubblicati in Athena Calabra, una opera che Giovanni de Giacomo diede alle stampe nel 1929, anno della sua morte.

 

Scrivo di questi scampoli di vita ora che le illuminazioni, tardo Hollywood, della fiera del Pettoruto stanno per essere spente ed un lungo inverno si prepara a stringere d’assedio, con le sue umide ombre San Sosti. Mi fa compagnia il malinconico presentimento che di questa manifestazione se ne ritornerà a parlare con toni caliginosi solo il prossimo mese di agosto. Forse il ricordo non edulcorato “da fera” potrebbe invece rimettere in circolazione la linfa vitale della nostra creatività e prospettare per essa nuove rinascite.

Forse! Chissà!

 

 

 

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