Del rancore, dell'invidia e di altri mali ancora


 di Francesco Capalbo


C’è un aspetto del sottosviluppo della nostra terra che è scarsamente indagato e nello stesso tempo sfugge alle tradizionali analisi dei ricercatori che sono soliti osservare solo la superficie degli avvenimenti. Esso ha sede nel cuore delle nostre collettività, proprio laddove si forma l’ethos, ovvero il nostro carattere collettivo inteso anche come temperamento di gruppo di un insieme di persone che vivono insediate sopra uno stesso territorio.
E’ fuori dubbio che prima ancora delle dotazioni infrastrutturali, dei finanziamenti, dell’ intervento dello Stato, dell’iniziativa privata e dei tanti…bla, bla, bla, è l’intreccio tra i modi di fare dei singoli e i comportamenti collettivi che determina sia le fortune economiche che culturali di un territorio.
Noi viviamo in un contesto sociale nel quale per una serie di accidenti non solo storici, i comportamenti singoli e collettivi scoraggiano chi si adopera “per fare” e questa considerazione è valida a tutti i livelli. E’ come se nel nostro ambiente, ogni iniziativa, sia essa una impresa economica che una attività culturale o un progetto di volontariato, innescasse una serie di reazioni permeate da forme diverse di denigrazione più o meno palesi con forte carica demolitrice, che deprimono e non permettono la produzione di ricchezza nella accezione più vasta del termine.
L’articolo che segue dal titolo: “I semi di Cadmo” analizza “odìì, rancori, invidiuzze, avversioni, bronci, crucci, rivalità, passioni indome”, ovvero tutta una ramificazione frondosa di miserie umane che frenano lo sviluppo di una comunità e che nel nostro specifico contesto sono esaltate anche dalla “cattiva politica”. E’ stato scritto da Giovanni de Giacomo, un famoso demopsicologo calabrese che con San Sosti ebbe un rapporto intenso e pubblicato su Cronaca di Calabria del 18 dicembre del 1921. Erano tempi in cui la Demopscologia, ovvero la nascente Etnologia, aveva la pretesa di analizzare l’animo delle popolazioni sulle quali posava lo sguardo. E’ curioso notare come a distanza di più  di cento anni il brano abbia conservato intatta la sua capacità di rappresentare tutto quello che di distruttivo passa nelle nostre teste… anche in quelle più sofisticate e intelligenti.
Il pezzo di facile lettura, nonostante l’incipit denso di metafore mitologiche, permette di individuare l’origine di comportamenti che solo lo sforzo cosciente dell’individuo e l’impegno congiunto delle istituzioni e della “buona politica” possono però modificare.
La lettura è consigliabile a quanti diffondono con ogni mezzo, a proposito di qualsivoglia iniziativa, il sottile e camaleontico venticello della maldicenza.



I semi di Cadmo

di Giovanni de Giacomo



… E dai denti seminati del mostro nacquero, armati di tutto punto, come Minerva dal capo del tonante Giove, uomini che si trucidarono…Nacque poscia, è vero, dal figlio di Agenore, Semele, che doveva dar vita al più giovane e al più celebrato nume della Grecia, Dionisio; ma quel terreno che germinò il mal seme è tuttavia avvelenato. Invano Cadmo rappresentò la luce e dette vita al dio dell’allegrezza e della vegetazione della vigna: la fonte limpida della rupe cadmea è tuttora irta di pericoli…
E io pensavo a questo, ieri, quando un giovane signore mi raccontava di una zuffa di studenti universitari…Che sia di noi così, noi, calabresi delle tre province? Lo notava pure il Padula, nel “Bruzio”.
Contate quanti anni, contate…
V’è molto vagabondaggio, in verità, tra noi; troppa gente “quasi disoccupata” e lo strano seme diviene fecondo, dove non si ha intenso lavoro, che è la gioia preoccupata dell’uomo libero e puro.
No. Non sono le scosse di adattamento dopo il cataclisma: è vecchia storia di zuffe impudiche, vecchio male che, a volta a volta, si riacutizza. Lo notava il Padula, ripeto.
Facciamo una passeggiata per le città e pei borghi di nostra terra. I semi cadmei danno florida vegetazione! E’ uno spettacolo, dobbiamo dirlo, inverecondo: odìì, rancori, invidiuzze, avversioni, bronci, crucci, rivalità, passioni indome, tutta una ramificazione frondosa di miseriale che diventano ragione di vita: vita vissuta che si vive!...

***
E’ il nostro male! Tutti amici, e pur tutti armati gli uni contro altri. Discordi tra noi, pur nell’ora della concordia apparente…Falsa armonia di spiriti: sui passanti s’appuntano gli sghignazzamenti di coloro che di buon mattino han finito il travaglio. E l’animo astioso segue i poveri morti, e penetra, torvo, arcigno, triste, pure nei camposanti!...
Gentil regione!...Guardiamo dove sono le ceneri dei nostri morti: pur in quel sacro recinto è penetrata la maldicenza. Il turpiloquio più immondo io cancellai con questa mano sulla bianca colonnuccia d’una tomba che s’elevava sull’erba folta, destinata al foraggio di un asino!
Il nostro male, è vero, è un po’ il male della gente latina.
Un ex mio amico mi diceva che, a Parigi, su di un ponte della Senna, vide, coperto d’un drappo, un misero, che al livido fiume aveva chiesto il riposo che forse la terra gli aveva negato. Un giovane che di là passava, si chinò sul naufrago della vita, sollevò un lembo del funebre drappo, fece una smorfia di dileggio, e andò via sghignazzando…
Se il popolo di Parigi stesse in ozio, ben sarebbe come noi.
In noi il male non è attenuato dal perenne lavoro. Ed è accresciuto da un tal quale sentimento di megalomania che si ha nei centri nervosi. Non la consapevolezza dei grandi, non l’alterezza gentile; e la sconfinata opinione di noi di fronte agli altri. Tutto è bene ciò che uno produce, tutto è male ciò che di fronte a lui producono altri. E se male proprio non si può dire, si va cercando nell’opera la manchevolezza o il punto, da cui si possa esprimere un sorrisetto di scherno.
- Egli dinnanzi a me? Mai…
E la suburra sale. Pur che un mio amico, un mio parente non vada dinanzi a me, venga la rovina…
E città nostre gentili cercano invano un’amministrazione comunale!
Tra tanta gente per bene, tra tanti professionisti, tra tanti gentiluomini munifici, fra tante intelligenze pronte vive aperte non s’ha come fare una amministrazione comunale… E il biasimo trova mille bocche aperte; e la lode si fa a denti stretti. Il ghigno di compassione per i mali e le miserie altrui ha vasto campo, da noi: largo pure il soccorso. Ma questo mai tanto cospicuo da portare l’altrui grandezza. Uno su noi? Mai!...
Non s’avrebbero a dire certe cose. Ma, cognito morbo facilis curatio. E sarà facile la cura?..
Riconosciamo il morbo nostro, guardiamolo con introspezione in noi, abbiamone orrore e disprezzo; buttiamo le impurità che ci rodono e cerchiamo di purificarci. Ci dia coscienza di noi il fascino che desta tanta buona gente unita a produrre il bene di sé e di altri nell’amore e nell’accordo; gente disciplinata, pronta, destra, che sa cancellare odi profondi, torvi rancori, pur di fare il bene comune. Sono gli innamorati del bene, e lo raccolgono dovunque si trovi. Gente di buona volontà.
E bene al bene, e niente altro.
Perché, se noi guardiamo il bene che possiamo produrre e che desideriamo – se davvero lo desideriamo ardentemente -, non abbiamo tempo di ostacolare chi va avanti.
Vada chi può, chi sa, chi si trova ad andare innanzi; vadano pure i da meno di noi, non siamo a un concorso, a una gara, e se gara vi debba essere sia per la conquista collettiva del collettivo bene, che non è mai scompagnata dal bene singolo; non ostacoliamo, senza autocritica, il cammino verso umane conquiste: la vittoria, pensiamo, è bella, e la fanno i duci e i gregari.

Cronaca di Calabria, 18 dicembre 1921



Nell’immagine: L’invidia, Giotto, Cappella degli Scrovegni di Padova


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